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La vendemmia, come si faceva una volta

La vendemmia: un momento di condivisione, dall’alto valore culturale e sociale. Uno dei lavori più attesi dell’anno, carico di gesti rituali e tradizioni. Continua a leggere…

Nel mese di settembre arriva puntuale, ogni anno, l’appuntamento con la vendemmia, un lavoro che ha mantenuto la sua importanza e sacralità nel corso dei secoli. Da tempi molto antichi si contraddistingue per essere un momento di pura condivisione, dall’alto valore storico e sociale per il territorio.
Simboleggia l’attesa dopo un anno di fatiche e di cure, e infine l’unione, la collaborazione e la festa del risultato tanto sperato.
Tradizioni contadine, tramandate da generazione in generazione, oggi sono state soppiantate da metodi più moderni, ma conservano un fascino peculiare, che in molti per fortuna ricordano ancora.

La vendemmia
La vasca della pigiatura

La vendemmia di una volta

La vendemmia è sempre stata fondamentale per le famiglie contadine. Nei campi si giungeva all’alba e non mancavano le braccia forti di amici e parenti che accorrevano ad aiutare. Con entusiasmo uscivano dai filari “cofani” (ceste) ricolmi di grappoli di uva, staccati dai tralci della vite con un netto colpo di forbice da donne agili e sinuose. Portare il raccolto ai palmenti del paese non era certo una fatica di poco conto. Spesso erano le spalle a dover sopportare il peso del carico; nel migliore dei casi toccava ad asini e buoi trasportare più a valle il bottino prezioso.

Giunti al palmento non mancavano gli uomini già pronti a piedi nudi all’interno di una grande vasca, impazienti di iniziare un lavoro lungo e faticoso, di “pistu e ripistu“. Un momento che vedeva escluse le donne, alle quali veniva vietato l’accesso, e che in cambio si accingevano ad allestire ricchi banchetti, con morbido pane di casa, olive, ortaggi sott’olio, pasta e fagioli…

La prima pigiatura poteva durare anche diverse ore. Movimenti continui e ritmati permettevano di pestare ogni acino d’uva, ottenendo un mosto pulito che goccia dopo goccia, grazie ad una pendenza naturale, cadeva nella “tina“, la vasca sottostante seminterrata, adibita alla fermentazione. Spesso, sotto il piccolo “cannolo” attraverso il quale scorreva il mosto, si posizionava un cesto che fungeva da filtro.
A seguire c’era “u ripistu”: l’uva veniva ulteriormente pestata e “sbrumata” per cacciare fuori fino all’ultimo goccio di succo.

La vendemmia
Il mosto appena pigiato viene filtrato attraverso un cesto prima di cadere nella tina

Arrivava poi il momento di fare “u conzu”. I grappoli già pigiati venivano recuperati e sistemati su una base di legno. Una volta compattati con le mani, si coprivano con altre tavole. Con un efficace sistema di contrappesi, girando una grande vite, l’uva veniva pressata, e lasciata sotto quel peso per tutta la notte.
Dopo due giorni di fermentazione il mosto poteva essere trasferito nelle botti, le quali avevano già ricevuto trattamenti, secondo pratiche antiche e scrupolose.

La vendemmia
U conzu

I ricordi dei nostri nonni: la vendemmia era un momento magico

La vendemmia in passato era faticosa e impegnativa, ma rappresentava giorni di grande festa. Terminata la raccolta in un piccolo appezzamento, si passava nell’altro, e poi nell’altro ancora; un impegno che durava intere settimane, e caratterizzava tutto l’autunno. La felicità stava nel potersi aiutare e godere della compagnia degli altri, nelle campagne così come a tavola. I palmenti erano affollati anche di notte, e per le vie del paese un odore indimenticabile usciva dai “catoi” e penetrava nel naso. Un via vai continuo di persone creava una piacevole confusione. Davanti la propria abitazione ognuno si dedicava alla preparazione delle botti. Chi accendeva il fuoco per riscaldare l’acqua con sale grosso, chi preparava “u suffareddu“, zolfo pressato e legato ad un fil di ferro, da calare nella botte; tutti accorgimenti che servivano a disinfestarla.

E poi c’erano i più piccoli, dispensati dalle fatiche, ma vispi e curiosi di imparare. La loro attenzione veniva catturata dal borbottio delle botti ormai piene, che si sentiva da dietro le finestre. E soprattutto dal lavoro delle massaie, impegnate nella preparazione della mostarda, un dolce a cui nessuno poteva rinunciare, che profumava di cannella e scorza di mandarino. Morbida e vellutata, la mostarda si otteneva dal mosto bollito insieme alla cenere, dolcificante naturale, e poi ribollito insieme alla farina, per addensare.

Oggi il gusto della tradizione rivive solo grazie a chi desidera ripercorrere quei gesti antichi. Molti ricordi diventano leggere sfumature, annebbiate da un velo di nostalgia.

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